Luca Ronconi sta al teatro come Albert Einstein alla fisica.
Per Sergio Escobar, direttore del Piccolo Teatro di Milano, Luca Ronconi è “il più scienziato tra i registi nel panorama internazionale”.
Da anni impegnato in un cammino di ricerca teatrale personalissimo, Luca Ronconi
rappresenta per molti addetti ai lavori “il nuovo” sulla scena, in una sfida continua al testo e alla tecnica.
Nato a Susa (Tunisia) l'otto marzo 1933 (dove la madre insegnava lettere), Luca Ronconi deve forse anche a questo “spaesamento” la sua capacità di prendere le distanze dai luoghi paludati del teatro contemporaneo.
Si diploma all'Accademia di Arte drammatica di Roma nel 1953, e i suoi primi esordi sono di attore. Quindici anni più tardi, arriverà la consacrazione come regista con la rappresentazione dell'Orlando Furioso di Ludovico Ariosto nella riduzione di Edoardo Sanguinetti. Questo è anche il momento dell'ingresso ufficiale del registra nel sistema degli Stabili italiani: Torino, Roma, e Milano dove ricopre al Piccolo Teatro, prima, il ruolo di direttore artistico (dal 1998 al 2004) e poi quello di consulente artistico.
Attualmente, per la nuova stagione scaligera sta lavorando all'Elektra di R. Strauss che andrà in scena il maggio prossimo.
In occasione della riapertura del Teatro alla Scala di Milano, Luca Ronconi ha firmato la regia de “L'Europa riconosciuta” di Antonio Salieri. Una esperienza esaltante in linea con lo stile innovativo del regista: «Ho ritrovato l'anima antica della Scala, con una struttura architettonica e tecnologica completamente nuova, pensata per un teatro del futuro capace di moltiplicare le sue produzioni e il suo pubblico».
Come ha ritrovato la Scala del Piermarini?
Il restauro ha saputo consegnare l'anima antica della Scala al futuro.
La macchina scenica è grandiosa. Si compone di sette carri compensatori della prima delle due macchine sceniche del Piermarini. Si tratta di strutture imponenti e all'avanguardia sotto il profilo tecnologico. Ogni carro è lungo 21 metri, pesa 30 tonnellate. Ma l'impegno tecnologico ha permesso anche di dare il via al progetto di digitalizzazione dei depositi, degli archivi e dei magazzini (Dam) che consentirà al Teatro di catalogare e conservare il proprio patrimonio. ( Il progetto è sviluppato insieme alla Fondazione Italiana Accenture e ai partner tecnologici Fastweb, Hewlett-Packard, Oracle, e agli sponsor tecnici Aem, Nikon, TDK Italia ndr. ).
Qual è il suo rapporto con la tecnologia?
Il mio rapporto con la tecnologia è fatto di curiosità. Ma è una questione più di metodo che di semplice suggestione legata agli oggetti tecnologici.
Nella nella primavera del 2002 nell'ambito del "Progetto Sigma-Tau", ha realizzato, per il Piccolo Teatro di Milano, “Infinities” uno spettacolo tratto da un testo scientifico scritto per l'occasione da John Barrow.
Scienza e tecnologia come argomento di teatro. Si tratta di un rapporto possibile?
“ Infinities” è un'opera sul concetto di infinito e in particolare sui paradossi matematici dell'infinito. Ma anche quando ho fatto la regia per “Il Candelaio” di Giorndano Bruno mi sono occupato di scienza.
Quando decido di fare uno spettacolo, mi pongo sempre molte domande. E farsi delle domande è alla base di ogni metodo scientifico. La rappresentazione è un modo per cercare di saperne di più su quel testo, su quel personaggio e proporlo al pubblico.
Da sempre penso che la contemporaneità del teatro non sia una questione di stili teatrali, di forme teatrali o di nuovi modi di scrivere. Questo è stato il pane dell'avanguardia nel secolo che ci siamo lasciati alle spalle.
Il connubio teatro e scienza è un fatto nuovo?
Veramente no. Anche nel teatro dell'Ottocento, soprattutto in quello
realistico-positivista ci sono stati testi e spettacoli che trattavano di scienza e tecnologia. La differenza con il contemporaneo sta forse nel fatto che la materia dell'opera, oggi, incide anche sulla struttura e la drammaturgia.
La scienza e la tecnologia permeano così da vicino la nostra esistenza quotidiana che è naturale trovarne il riflesso anche a teatro.
Non si tratta di vedere come il teatro può parlare della scienza, ma in che modo la scienza può parlare a teatro.
E in che modo è possibile?
Penso si possa benissimo rappresentare un fatto in circostanze dove non sia il personaggio il fulcro della rappresentazione, dove non sia il dialogo il mezzo di comunicazione. Lo dico senza nessun disprezzo. E per questo ho chiesto a Barrow di portarmi un testo che potesse essere suscettibile di teatralizzazione, ma non necessariamente attraverso quelli che sono gli elementi costitutivi del teatro tradizionale.
Si può parlare di "teatro scientifico"?
Mi sembra un azzardo. Non esiste teatro se non si presuppone un pubblico e non esiste se non si presuppone una libertà di pubblico rispetto all'opera alla quale sta assistendo. Quindi un teatro scientifico presupporrebbe che il messaggio o l'ipotesi che viene posta attraverso lo spettacolo, arrivasse a tutti quanti gli spettatori in una maniera identica e questo è un fatto per definizione impossibile e neanche tanto auspicabile.
La tecnologia non può essere, come dire, un po' ingombrate a teatro?
Può sembrare che io abusi della tecnologia in una rappresentazione e che l'apporto tecnologico sia in qualche modo ingombrante. In realtà, non sono affatto un patito della tecnologia a teatro. D'altra parte, fra i tempi del teatro e quelli della tecnologia c'è una discrepanza forte. Ciò che è nuovo un anno o in un certo periodo è generalmente tecnologicamente superato l'anno dopo. Nelle forme artistiche e nelle forme teatrali la durata nel tempo è fondamentale. Quindi, per qualsiasi forma artistica, il rapporto diretto con la tecnologia, penso che sia abbastanza difficile.
Molto spesso, infatti, porto in palcoscenico le tecnologie già obsolete, quasi fosse una forma di “memento mori” per quelle che obsolete non lo sono ancora.
Il metodo di lavoro è invece assolutamente scientifico. Sperimentazione e verifica dovrebbero essere dei procedimenti costantemente applicati. Come nella scienza, si tratta non di dire se una cosa è vera o falsa, ma semplicemente se è fondata o se non è fondata. Anche in teatro e al di là della scienza, nel momento in cui si fa una scelta artistica, è opportuno fare una verifica continua per sapere se quello che ti sembra interessante, magari non è invece una stupidaggine.
Una critica spesso rivolta ai suoi spettacoli è quella di violare le convenzioni costringendo gli spettatori a rappresentazioni un po' faticose…
Non mi pare di costringere nessuno. Un'opera può essere comunicata nella sua continuità o nella sua discontinuità, un quadro può essere ammirato nel suo complesso o nel suo dettaglio. Non mi piace pensare a una qualsiasi rappresentazione artistica come fosse un piatto di bucatini all'amatriciana da mangiare fino all'ultimo boccone. Non ci può essere un rapporto così terrificante tra l'opera e il suo destinatario. Non costringo a fare delle abbuffate, ma cerco di concepire delle opere in cui non sia necessario ingozzarsi fino all'ultimo per sapere che sapore hanno.
Quale funzione è riconosciuta al teatro oggi?
Riconosciuta da chi? Molto spesso la committenza chiede al teatro di essere una “buona azione” quando invece, nelle grandi epoche, il teatro è stato un'azione provocatoria. Oggi, molti vorrebbero un teatro domestico, vicino all'assistenza sociale. Non so se sono d'accordo. A me piace pensare che il teatro continua a essere una forma particolare di conoscenza del mondo. Ecco perché non rifiuto la tecnologia che ci aiuta in questa operazione, sempre che non sia solo una inutile complicazione.
Non mi interessa il teatro che rispecchia il mondo, perché sono certo che quel rispecchiamento nasconde in realtà una menzogna bella e buona.
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